lunedì 29 giugno 2009

Nemico sostituto

Giorgio Fidenato alza il tiro. Non è che finora l’imprenditore veneto e i suoi operai abbiano scherzato, ma da adesso la partita entra nella fase più caliente, dove non sarà permesso distrarsi, perché è arrivata l’occasione di fare goal e sarebbe un crimine sprecarla. A dire il vero, la melina è stata tutta dalla parte dei giannizzeri statali, fisco e INPS, che hanno preferito traccheggiare a metà campo con passaggi blandi, molto spesso al proprio portiere, giusto per non stuzzicare un avversario che intuiscono agguerrito. Per uscire di metafora, gli avvocati di Giorgio intendono mettere in mora il creditore, rovesciando la prospettiva di chi da sempre è abituato a esigere con i metodi coercitivi del tizio che ha (perché glielo hanno fatto credere troppe volte) il coltello dalla parte del manico. Fidenato è un piccolo industriale che da quattro mesi, ormai quasi cinque, consegna ai propri dipendenti la busta paga più pesante di quanto mai abbiano avuto. Più pesante, cioè lorda, senza trattenute e contributi, anzi, per essere precisi, senza il calcolo delle trattenute e dei contributi che spetterebbero loro in rapporto ai soldi che ricevono. ‘Spetterebbero’ è parolina fuorviante, giacché in realtà al dipendente non tocca nulla, e il valsente sparisce dritto nelle capienti tasche dello stato, le quali lo dovrebbero tenere in caldo per il momento della pensione (una fetta), o distribuirlo in mille rivoli minuscoli (un’altra fetta), in modo da soddisfare tutti gli appetiti di un mucchio di gente che non c’entra un cappero con il lavoro degli operai e di Fidenato stesso. Ora, ci raccontano la favoletta che, così facendo, lo stato rende ai lavoratori un grandissimo favore, perché toglie loro l’incomodo di foraggiare i commercialisti per farsi dire quanti dindi vadano a lui, allo stato, per gli incommensurabili servizi che offre alla collettività, ivi compresi gli operai di Fidenato. Questo sistema si chiama ‘sostituto d’imposta’ e obbliga il datore di lavoro a riscuotere le tasse per conto dello stato. Così lo stato non si sporca le manine e fa bella figura, mentre le maledizioni e i mugugni vanno al porco padrone, per via della busta sempre più magra. Quasi gli restassero appiccicati alle dita gli spiccioli della gran ladreria ipocrita, mentre invece col cavolo che lo stato paga l’imprenditore per siffatto esercizio da Lupin dei poveri: no, no, metta all’opera i suoi Fantozzi dell’ufficio stipendi e non banfi, ché trattasi di obbligo di legge. Ma il tosto Fidenato deve essere uno che si fa amare e capire dai suoi operai, perché tutti si sono trovati solidali con il padrone, quando gli è venuta la grandiosa idea di rifiutare l’odioso compito di gabellare, in tutti i sensi, chi suda e fatica per la pagnotta pagata da Giorgio. Il discorso è stato, più o meno, questo: io vi retribuisco per intero e voi date di vostra sponte il dovuto all’Agenzia delle Entrate e all’INPS, così toccate con mano quanto vi prendono. E così si smonta il meccanismo studiato per contrapporre lavoratori dipendenti e autonomi: studiato dai sindacati, che hanno bisogno di tenere in piedi questa artificiosa suddivisione, giacché sono loro i primi a temere el pueblo unido nel ricacciargli in gola tutte le balle sesquipedali sull’evasione fiscale degli autonomi. Perché questi non hanno la busta paga e gli altri sì. Peccato che i primi si facciano un mazzo per adempiere agli oneri burocratici, spesso assurdi, spesso inutili, spesso dannosi, che costano, oh, se costano!, e i secondi hanno una pappa fatta che sa di rancido, di inganno, di presa per il culo. Se Fidenato riuscisse a saldare le speranze dei dipendenti con le incazzature degli autonomi, e viceversa, sarebbe un gran successo. E sarebbe una liberazione l’abbandono di quest’imbroglio di sostituto d’imposta. Giorgio vuole arrivare fino alla Corte Costituzionale, poiché ritiene una servitù intollerabile fare le pulci alle buste paga per conto di uno stato pitocco. E noi dipendenti, smettiamola di vedere inesistenti travi nell’occhio di qualsivoglia imprenditore, e sfiliamoci dai nostri, di occhi, le pagliuzze lunghe un chilometro, che ci hanno ficcato dentro a forza i cattivi maestri dell’invidia sociale. Sosteniamo anche con un sacrificio in denaro la lotta libertaria, con un versamento magari piccolo, ma meritorio, al seguente IBAN: IT47N0200864951000041181330, Movimento Libertario, precisando quale causale “Sostegno a Giorgio Fidenato”. Infine, un consiglio per gli acquisti: procuratevi il libro di Leonardo Facco, Elogio dell’evasore fiscale. Vi troverete anche la storia di Giorgio.

domenica 28 giugno 2009

La morte del malato immaginario

Peter Pan è morto. Un Peter Pan che, a dispetto delle cause intentategli, non si è mai trasformato in Capitan Uncino. Sì, è vero, è stato costretto a sborsare somme da capogiro per tacitare i genitori delle sue presunte vittime e non approdare nelle aule di tribunale dove, forse, lo avrebbero massacrato. Ma Jacko non era un orco: riguardo a questo, potrei metterci la mano sul fuoco e, se non lo faccio, non è per timore di bruciarmela, bensì per il rispetto dovuto a chi, invece, di abusi, magari non sessuali, ma sicuramente psicologici, e di sevizie, tante e svariate, ne ha subiti, nell’infanzia e anche oltre. Non ignoro che persone violentate da piccole (non rileva che la violenza sia ristretta alle cinghiate, agli urlacci, ai comportamenti terrorizzanti – basta sia continuativa e pervasiva, tale da generare in chi vi soggiaccia la convinzione che non esista altro modo di relazionarsi con lui/lei) tendono spesso a replicare in età adulta le violenze su soggetti più deboli, ma Michael ha fatto male soprattutto a sé stesso. Le stelle del pop non sono generalmente ‘maledette’ come le colleghe del rock, non foss’altro per il differente alone che le circonda, per l’aura di leggiadria e talora di fatuità contrapposta all’ambaradan sulfureo che caratterizza i ‘dannati’ dell’altra sponda, più problematica e meno consolatoria: anch’esse, però, muoiono talora giovani, giusto per rimanere nello stereotipo del caro agli dei e alimentare leggende fitte di luoghi comuni sull’infelicità dei baciati dal successo; e sulle loro morti si ricama, oh, come si ricama!, ché la fine di un divo ha da essere materia di gossip quanto e più della sua vita. Le vendite di dischi debbono pur continuare. Quale icona accetterebbe di spegnersi serenamente a novanta e più anni nel proprio letto? Sarebbe credibile, per l’immaginario collettivo, un cantante vissuto fra gli eccessi e di eccessi, se non schiattasse in conseguenza dei medesimi? I sopravvissuti fanno sempre tristezza e un po’ anche rabbia, e sono i critici che si incaricano di fungere da loro sicari, se non dell’esistenza fisica dei miti alle soglie della pensione, della loro esistenza artistica, stroncandone le esibizioni dal vivo (appunto, come si permettono?) e le ultime fatiche discografiche. A malapena si digeriscono un Mick Jagger e un Keith Richards, con la scusa che, avendo sempre bazzicato il diavolo, probabilmente hanno stretto un patto con lui. Madonna cinquantenne sta cercando di riconvertirsi in regista di film, con esiti peraltro disastrosi (già mediocre attrice, non si può dire che le giovi l’essere passata dietro la macchina da presa). Michael Jackson, essendo stato il Gerovital della musica pop, sarebbe potuto sfuggire forse alla maledizione, anche se artisticamente sembrava non avere più molto da dire, ma rimaneva il problema degli eccessi, che sono arrivati puntuali a chiedergli il conto. E i suoi eccessi erano, soprattutto, nel ricorso costante e smodato ai farmaci, che parevano i suoi unici amici. Probabilmente, da paperone prodigo quale era, avrà incontrato sulla propria strada medici vogliosi di monetizzarne l’ipocondria smisurata, o semplicemente incapaci di arginarla. Il mistero della sua morte, di là dall’individuazione delle cause immediate del decesso, non è affatto un mistero: le medicine non possono venire assunte a ogni pié sospinto, senza che il fisico non paghi dazio. Una verità banale, ma importantissima in un’epoca in cui ci si rifugia nelle pastigliette e nelle compresse per qualsivoglia accenno di malanno. E meno male che non tutti posseggono i miliardi del povero Jacko, che si è distrutto candeggiandosi. Una candeggiatura continua, che lo ha logorato inesorabilmente. Una candeggiatura cercata, forse, per cancellare il proprio peccato originale: avere sacrificato l’infanzia alle mire di un padre maniaco della perfezione, un nero in cerca di interposto riscatto per il tramite di quella musica nera che i Jackson avevano nel sangue, ma che il piccolo Michael deve avere vissuto più come marchio d’infamia, viste le frustate piovutegli sulla schiena al minimo sbaglio in sala d’incisione o sul palco. Una volta cresciuto e affermatosi come solista, quel marchio gli sarà sembrato sparito, ma poi la fregola di imbianchire – o di sbianchettarsi? – lo ha assalito e non lo ha più mollato. E, con il senno di poi, a rischio di ricevere l’accusa di psicoanalisi da salotto, anche l’esibizione orgogliosa e sfrontata della propria sessualità, con quella mano protesa a magnificare in scena il pacco durante le splendide evoluzioni danzerecce, è da riconsiderare sotto una luce più sinistra: come la paura del bambino di perdere qualcosa conquistato a un prezzo troppo alto.

sabato 27 giugno 2009

La scommessa di Nuuk

Se la libertà fosse davvero al primo posto tra i valori considerati innegoziabili dall’umanità, il primo giorno d’estate del 2009 sarebbe di festa per tutti i popoli dell’orbe terracqueo, perché ha segnato l’ingresso degli inuit (letteralmente e semplicemente, ‘popolo’, in lingua groenlandese) nel club delle nazioni sovrane. Sovrani in quasi tutto, meno che nella Corte suprema (i gradi inferiori di giustizia sono ora nelle mani di magistrati locali, non più danesi), nella valuta, nella politica monetaria, in quella estera e della sicurezza, gli Eschimesi abitanti della più grande isola del mondo dopo l’Australia lo sono da meno di una settimana, nel quadro di un’autonomia destinata a sfociare nella piena indipendenza entro un breve volgere di anni. Quanti, dipenderà dall’esito della scommessa che i nuovi reggitori della Groenlandia hanno deciso riguardo agli effetti di un fenomeno universalmente conosciuto, ma non universalmente accettato, anzi, ancora oggetto di valutazioni scientifiche assai difformi e suscettibili di dispute a vari livelli, non ultimo quello ‘politico’, nel senso più alto (o più ‘lobbystico’, per alcuni) del termine: il cosiddetto Global Warming, o riscaldamento globale. Per la Groenlandia, più che per ogni altro paese del mondo, lo scioglimento dei ghiacci discendente da tale fenomeno sarebbe il discrimine tra un’economia assistenzialistica di corto respiro e un’esplosione di ricchezza a lungo raggio. Se per la Danimarca si tratta di liberarsi di un fardello (si calcola che il distacco di Nuuk dalla madrepatria farà risparmiare a Copenhagen, alla fine del processo, una cifra annua superiore al mezzo miliardo di dollari: a tanto ammontano i sussidi erogati agli autoctoni in difficoltà, da abbandonare gradualmente ma progressivamente), per l’isola si parla di un autentico salto nel buio – e non certo quello della notte boreale: l’autodeterminazione segna la rinunzia al sessanta per cento del PIL nazionale, lasciando ai nativi il quaranta, rappresentato dall’industria della pesca. A questo punto, gli inuit potranno contare sulla base aerea statunitense di Thule, sulla produzione conserviera, sull’allevamento degli ovini (forzatamente limitato alla zona più meridionale) e delle renne (che non sono quelle di Babbo Natale), nonché sulle risorse di un sottosuolo non appieno sfruttato: criolite, grafite, carbone, piombo. E qui sta il nocciolo della questione, giacché la sinistra radicale al governo confida proprio nel Global Warming per dare impulso all’attività estrattiva, dando l’avvio alla ricerca di quanto potrebbe costituire la salvezza del paese, vale a dire il petrolio. E con esso, il gas naturale. I geologi USA hanno già stimato in novanta miliardi la quantità di barili che potrebbe contenere la zona artica, mentre le riserve di gas ammonterebbero addirittura al ventidue per cento di quelle mondiali. Ma, purtroppo, tutto rimane per ora sulla carta, di là dalla innegabile importanza della posizione strategica dell’isola. E se ci si mettesse a trivellare sul serio, una volta ammorbidito il terreno, come concilierebbero i governanti la loro impronta ecologistica con le necessità dell’industria mineraria? Nel frattempo, forse, sarebbe meglio puntare sul turismo. Sempre che la presenza dell’uomo non dia troppo fastidio. In fondo, la critica maggiore agli indipendentisti è venuta da chi considera troppo esigua la popolazione (cinquantasettemila anime). E se invece fosse l’arma vincente?