domenica 28 giugno 2009

La morte del malato immaginario

Peter Pan è morto. Un Peter Pan che, a dispetto delle cause intentategli, non si è mai trasformato in Capitan Uncino. Sì, è vero, è stato costretto a sborsare somme da capogiro per tacitare i genitori delle sue presunte vittime e non approdare nelle aule di tribunale dove, forse, lo avrebbero massacrato. Ma Jacko non era un orco: riguardo a questo, potrei metterci la mano sul fuoco e, se non lo faccio, non è per timore di bruciarmela, bensì per il rispetto dovuto a chi, invece, di abusi, magari non sessuali, ma sicuramente psicologici, e di sevizie, tante e svariate, ne ha subiti, nell’infanzia e anche oltre. Non ignoro che persone violentate da piccole (non rileva che la violenza sia ristretta alle cinghiate, agli urlacci, ai comportamenti terrorizzanti – basta sia continuativa e pervasiva, tale da generare in chi vi soggiaccia la convinzione che non esista altro modo di relazionarsi con lui/lei) tendono spesso a replicare in età adulta le violenze su soggetti più deboli, ma Michael ha fatto male soprattutto a sé stesso. Le stelle del pop non sono generalmente ‘maledette’ come le colleghe del rock, non foss’altro per il differente alone che le circonda, per l’aura di leggiadria e talora di fatuità contrapposta all’ambaradan sulfureo che caratterizza i ‘dannati’ dell’altra sponda, più problematica e meno consolatoria: anch’esse, però, muoiono talora giovani, giusto per rimanere nello stereotipo del caro agli dei e alimentare leggende fitte di luoghi comuni sull’infelicità dei baciati dal successo; e sulle loro morti si ricama, oh, come si ricama!, ché la fine di un divo ha da essere materia di gossip quanto e più della sua vita. Le vendite di dischi debbono pur continuare. Quale icona accetterebbe di spegnersi serenamente a novanta e più anni nel proprio letto? Sarebbe credibile, per l’immaginario collettivo, un cantante vissuto fra gli eccessi e di eccessi, se non schiattasse in conseguenza dei medesimi? I sopravvissuti fanno sempre tristezza e un po’ anche rabbia, e sono i critici che si incaricano di fungere da loro sicari, se non dell’esistenza fisica dei miti alle soglie della pensione, della loro esistenza artistica, stroncandone le esibizioni dal vivo (appunto, come si permettono?) e le ultime fatiche discografiche. A malapena si digeriscono un Mick Jagger e un Keith Richards, con la scusa che, avendo sempre bazzicato il diavolo, probabilmente hanno stretto un patto con lui. Madonna cinquantenne sta cercando di riconvertirsi in regista di film, con esiti peraltro disastrosi (già mediocre attrice, non si può dire che le giovi l’essere passata dietro la macchina da presa). Michael Jackson, essendo stato il Gerovital della musica pop, sarebbe potuto sfuggire forse alla maledizione, anche se artisticamente sembrava non avere più molto da dire, ma rimaneva il problema degli eccessi, che sono arrivati puntuali a chiedergli il conto. E i suoi eccessi erano, soprattutto, nel ricorso costante e smodato ai farmaci, che parevano i suoi unici amici. Probabilmente, da paperone prodigo quale era, avrà incontrato sulla propria strada medici vogliosi di monetizzarne l’ipocondria smisurata, o semplicemente incapaci di arginarla. Il mistero della sua morte, di là dall’individuazione delle cause immediate del decesso, non è affatto un mistero: le medicine non possono venire assunte a ogni pié sospinto, senza che il fisico non paghi dazio. Una verità banale, ma importantissima in un’epoca in cui ci si rifugia nelle pastigliette e nelle compresse per qualsivoglia accenno di malanno. E meno male che non tutti posseggono i miliardi del povero Jacko, che si è distrutto candeggiandosi. Una candeggiatura continua, che lo ha logorato inesorabilmente. Una candeggiatura cercata, forse, per cancellare il proprio peccato originale: avere sacrificato l’infanzia alle mire di un padre maniaco della perfezione, un nero in cerca di interposto riscatto per il tramite di quella musica nera che i Jackson avevano nel sangue, ma che il piccolo Michael deve avere vissuto più come marchio d’infamia, viste le frustate piovutegli sulla schiena al minimo sbaglio in sala d’incisione o sul palco. Una volta cresciuto e affermatosi come solista, quel marchio gli sarà sembrato sparito, ma poi la fregola di imbianchire – o di sbianchettarsi? – lo ha assalito e non lo ha più mollato. E, con il senno di poi, a rischio di ricevere l’accusa di psicoanalisi da salotto, anche l’esibizione orgogliosa e sfrontata della propria sessualità, con quella mano protesa a magnificare in scena il pacco durante le splendide evoluzioni danzerecce, è da riconsiderare sotto una luce più sinistra: come la paura del bambino di perdere qualcosa conquistato a un prezzo troppo alto.

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