giovedì 1 dicembre 2011

Ippocrate e gli ipocriti

Ippocrate, chi era costui? Forse sarebbe meglio manco porsi tale domanda, quando la realtà ci sbatte in faccia un dibattito come quello scatenato (aridaje) dal raggelante episodio avente per protagonista – sbagliato, ma imposto da un’ironia beffarda quanto una nemesi - un revenant di epoche giurassiche quale Lucio Magri, pace all’anima sua. Alzi la mano chi, contiguo alla generazione che gaberianamente ha perso, pur abbarbicata a poltrone testarde nell’indicarne invece una specie di vittoria alquanto amara per il resto della medesima generazione rimasto fuori dai suoi giochini e giocacci, non si ricordava, magari solo vagamente, del bell’eretico (sia gloria agli eretici davvero tali), concupito dalle femmine e schinato appunto dai perdenti-vittoriosi di entrambe le chiese ancora dominanti nel nostro Paese, al netto delle giravolte e conversioni suscitate da crolli di muri subiti e mai metabolizzati. Lucio, dove sei stato in tutti questi anni, per tornare alla ribalta con il paradosso di quel gesto annichilente senza rimedio, che ha gettato nel cono d’ombra la più moderna figura del tuo personale Dottor Morte? A dire il vero, poco ci cale della coscienza di costui, ammesso ne abbia una. E già accettarne la marginalità apparente è il segno disperante di un horror vacui al contrario all’ennesima potenza, che tracima dalla nostra epoca per imbrattare ogni parola e ogni concetto si intenda esprimere di là dall’asettico rispetto e dall’asettica (stavo per dire) pietas riservata alla scelta di togliersi la vita. Viva l’ipocrisia!, è il caso di commentare, fra gli opposti bigottismi. Non ce l’abbiamo con la Svizzera, ci mancherebbe, né tampoco con il Vaticano, la Spectre papalina che tutto ammanta con la vaselina di curia, giusto per consentire un indolore passaggio a presunti osceni silenzi sulla mancanza di una legislazione adeguata a un nuovo grado di ‘civiltà’. Chi vuole farla finita, insomma, se ricco emigri fra le vacche e i cucù, se povero si spari o si impicchi. Ora, è buffo che siano proprio i libertari a volere incartare i drammi fra i commi e i ricorsi in tribunale, come se non fossero già troppe, in ogni campo, le leggi e i regolamenti. Abbiamo davvero bisogno di infilare nel codice la disperazione di un depresso, che è, fino a prova contraria, un malato bisognoso di cure? Se un medico si acconcia a spingerlo oltre l’orlo del precipizio, senza tanto clamore, la sua sarà un’opera meritoria o scellerata, ma rimarrà confinata nel privato, com’è giusto che sia. Personalmente, avendo visto da vicino l’orrido volto della depressione, sono poco incline a dar retta a chiunque cianci di libertà a sproposito, ma non impedisco ad alcuno di bersi il calice e financo di trangugiarlo, senza per questo spacciarne gli atti lesivi dell’istinto di conservazione per atti di libertà. L’ipocrisia, deprecabile dai moralisti, ha la funzione di preservare il tessuto sociale: come individuo non la pratico, il più delle volte, ma la reputo necessaria in tanti frangenti, e non mi scandalizzo certo, da libertario, per i cosiddetti ‘vuoti legislativi’ in materia etica, tutt’altro. Alla fine, l’essenziale è l’elasticità nella valutazione dei singoli casi, ma non certo da parte di una toga o di un assistente sociale o di un sindacalista dei depressi. Lasciamo le cose come stanno, non peggioriamole.

sabato 26 novembre 2011

Tangendo terzopolisti

Il manettaro Travaglio, che rimane un destro spurio prestato ai sinistri, ha una sua lugubre coerenza nell'insistere con le liste di proscrizione, un filino meno liberali di quelle di prescrizione, ugualmente micidiali per la casta dei magnaccioni, che al momento gode del commissariamento divino imposto da San Napo. La cosiddetta 'questione morale' ormai è più pelosa di uno yeti e altrettanto leggendaria. Il cardinal Tarcisio Bertone, più roccioso del suo omonimo Burgnich, avrebbe magari da ridire sul 'buon cattolico' Casini, ma sepolcreggia da imbiancato, pago di non vedere minacciato l'ottopermille, al pari dell'amico-nemico Bagnasco. Quanto al laicone Fini, egli è ormai di là da ogni vergogna e non si perita di sommozzare anche stando a galla nel pattume. Come Italioti, ci meritiamo la serie di van da cui siamo perseguitati, dal 'vanfan...' di Van Rompuy, l'assassino rumoroso delle sovranità nazionali secondo Farage, al pulmino del botolo montecarlino. Ragazzi, Natale si avvicina: trangugiamoci l'ICI con l'uvetta e acconciamoci a recitare la parte dei Magi recanti i doni al Bambinello Monti!

giovedì 17 novembre 2011

Sesto grado

E' evidente che i maggiori partiti approfitteranno della presenza di un governo dei banchieri per concentrarsi sul regolamento di conti al proprio interno, per poi passare al massacro delle rispettive coalizioni: forse a Berlusconi avrebbe davvero fatto comodo un Letta nell'esecutivo, però dubito che i capi e i capetti pidiellini perderanno il sonno per non avere ottenuto che il cardinale del centrodestra vegliasse sulle mosse di Monti, o forse, al contrario, smoccoleranno per non essere riusciti a levarselo di torno, anche se le capacità di mediazione dell'Impomatato saranno poste a dura prova dalle miriadi di fuochi destinati ad accendersi nel partito dell'ex premier. Quanto a Bersani, lungi dal dolersi per la mancata agnizione di (poco) Amato nel gruppo degli ottimati pronti ad affettare i risparmi degli Italiani per salvare il bilancio dello stato, dovrà sudare settanta camicie con le maniche arrotolate per difendersi dalla moltitudine di nani in fregola per scalzarlo, e non mi riferisco al buon Renzi, che potrebbe pescare, in mezzo alle liti fra 'rottamandi', la briscola per costringere le cariatidi rosse nell'angolo. Il Terzo Polo adesso gongola nell'illusione di avere una sponda nei cattolici 'adulti' di cui è farcito il governo, subito benedetto da monsignor Bertone, ma è ancora da dimostrare che il Bokkoniano si lasci intortare dal genero di Caltagirone. La Lega guadagnerà molto dall'essere l'unica vera opposizione, soltanto se darà retta ai suoi sindaci, rivitalizzati dalla nuova ICI (che fingono di non desiderare), e se azzererà il 'cerchio magico', con un Maroni che deve guarire in fretta dalla sindrome del riconoscente nei confronti di Bossi, il quale a sua volta sarà meglio si decida a trasfigurarsi in 'padre nobile' della Quarta Repubblica. Già, perché la neonata Terza è l'ostaggio eccellente di un manipolo di miliardari con il culo al caldo. E, siccome l'invidia sociale non è mai morta, è facile prevedere, malgrado San Napo, un periodo di torbidi mica male. Nessuno dotato di raziocinio brama essere uno sfasciacarrozze, ma sarebbe da ingenui non rappresentarsi gli effetti collaterali di una terapia d'urto. Che potrebbe funzionare meglio di una cura omeopatica, a patto che gli speculatori internazionali si rivelino docili ai comandi dei signori Trilateral & Bilderberg. Guardate a cosa siamo ridotti: a sperare che il liberismo bastardo di Mario Bin Loden faccia meno vittime di quelle che hanno in preventivo i 'banchieri di Dio' e gli accademici sprezzanti del populismo berlusconiano. E' auspicabile che la maggioranza degli Italiani stringa i denti, al netto della nausea per i rampolli invecchiati dell'alta borghesia, provvisoriamente issati sulla tolda di comando, evitando di farsi derubare più del necessario - impresa difficilissima, ma non impossibile (la speranza è davvero l'ultima a morire, soprattutto quando sconfina nell'irrazionalità) -, giusto per non fare la fine di un Sansone con le pezze al sedere che si trascini dietro i filistei mastriccionici.

mercoledì 9 novembre 2011

Bulli, pupe e pugnette

Lo hanno fatto arrabbiare e ora ne pagheranno il fio. Quanti si illudono che stia a leccarsi le ferite sperimenteranno presto la portata del loro errore di valutazione. Contando sull’impressione che fosse ormai sull’orlo del kappaò, hanno insistito nello stringerlo alle corde, fidando nel lancio della spugna, che è arrivato, ma non nel modo che si sperava: in effetti, gli stessi commentatori a bordo ring si ritrovano confusi sull’esito reale dell’incontro, che avrebbe dovuto segnare l’uscita definitiva dalla scena di un pugile suonato, pallida ombra del campione di un tempo, apparentemente rovinato dalla troppo assidua frequentazione di donnine allegre nella vita fuori dal quadrato della politica, prima.distratto e poi distrutto dai suoi stessi vizi. Il guaio è che il gong si è sovrapposto alla resa di un atleta rimasto in piedi, quasi fosse stato egli stesso a guidarlo un attimo prima che il pugno dell’avversario gli centrasse il mento. E adesso vi è la prospettiva che sia ancora il vecchio leone a stabilire l’entità della borsa e le modalità e i tempi della rivincita. Pur consci che, fino a prova contraria, Silvio non sia Dominiddio, e che, pertanto, possa metterci più dei canonici tre giorni per risorgere, nulla si può escludere al riguardo. L’arbitro del match, di cui si favoleggia abbia servito come carrista di complemento nell’Armata Rossa, a dire il vero, è sembrato più interessato a mostrare al pubblico la propria camicia linda di bucato e il papillon di ordinanza che ad evitare i reciproci colpi sotto la cintura dei contendenti, anche se ora, dopo avere evitato di alzare il braccio del presunto vincitore, dà l’idea di voler scalfareggiare un po’ troppo. E il laticlavio elargito improvvisamente alla ragazza sculettante dei cartelli delle riprese, tale Mario Monti, che come secondo lavoro ha quello del menagramo professionista in giro con il circo Barnum per le capitali d’Europa, dove gli infilano mazzette di euracci nel cavallo dei calzoni dopo i numeri di lap dance, è un brutto, bruttissimo segnale. Intanto, continua a rimanere ignota l’identità del boxeur che avrebbe chiuso l’epoca di Berlusconi. Un habitué dei bassifondi parlamentari, tale Barbato, forse imboccato da allibratori restii a pagare le (modeste) quote sulla sconfitta del Tigre di Arcore, giura che l’eroe della serata sarebbe un certo Pomicino, un revenant riesumato e rivitalizzato dalla ter apia voodoo del re degli slums democristiani di Montecitorio, il belloccio Casini. Altri propendono per una femme fatale con passato di antennista nel quartiere di Catodia, la pericolosa dark lady Gabriella Carlucci, già pupa di gangster al soldo del detronizzato Silvio. Pochi ritengono che il merito della caduta di costui vada alla vecchia zia Bersanofia, un’innocua pensionata con l’hobby dei proverbi e delle lenzuola ricamate, quantunque siano in parecchi a sostenere d’averla vista scommettere sulla débacle del campione forti somme prestatele sottobanco da un tizio di Sesto San Giovanni, giusto per rimpinguare le casse della casa degli orfani di Marx e Lenin da lei gestita. E la paura degli aficionados della noble art, se mai l’odiato-amato Berlusconi non riuscisse alla fine a riconquistare la corona dei massimi, è quella di morire democristiani, come vent’anni fa.

martedì 1 novembre 2011

L'astuzia di Bertoldo

La Grecia vuole il referendum sulle misure anticrisi imposte dall’Europa? E’ una buona notizia, perché dimostra che esistono ancora popoli non disposti a farsi massacrare per difendere una moneta nata con gravi tare per compiacere levatrici indifferenti alla sorte della gestante. Stupisce soltanto che a starnazzare contro la decisione del governo di Atene siano fior di abortisti (in senso metaforico e no), fautori da sempre della Rupe Tarpea per le creature malformate. Gli stessi che hanno sempre considerato il benessere dei popoli un accidente irrilevante, di fronte ai conti in ordine degli stati, innalzati a feticcio in luogo delle due sorellastre, oriunde elleniche (guarda un po’ l’ironia… !), Libertà e Democrazia, alquanto maltrattate dalla cricca di banchieri e burocrati annidata fra le brume fiamminghe in questi quasi dieci anni di ciofeca unica. E se è vero che le sunnominate spesso si strappano i capelli l’una con l’altra, e si tirano calci negli stinchi per la difficile convivenza reciproca, ciò non significa non possano allearsi per sberleffare i sopraccigliosi custodi della virtù dell’euro, che fino a prova contraria rimane una convenzione nominalistica ostile alla quotidianità dei sudditi di Mastriccionia (o quella del diminuito potere d’acquisto per la stragrande maggioranza degli infelici abitatori del Vecchio Continente è una fola?). Giustamente, dal loro angolino ristretto, le vestali della divisa unica hanno stigmatizzato l’idea di sottoporre al giudizio dei cittadini greci, non la lunghezza dei cetrioli o la curvatura delle banane (che si potrebbe ritorcere domani contro di loro) - decise peraltro anch’esse nel chiuso di un sinedrio, come l’illiberale e demenziale sistema delle quote latte, con tanto di multe salate per i reprobi e i renitenti a farsi dirigere la produzione -, bensì la qualità di vita futura dei cittadini stessi, opponendo a tale fulgido esempio di democrazia il parallelo con la scelta dell’albero da parte dell’impiccato, forse memori (ma ne dubitiamo, stante la crassa ignoranza di certi contabili troppo compresi del proprio ruolo) dell’astuzia di Bertoldo. Ora, di là che i Greci – o, meglio, i politici scelti dai Greci – abbiano truccato i conti, o anche solo pasticciato con i numeri, pur di entrare nel meraviglioso mondo dell’euro, e che abbiano fama di cicale, e magari vi siano fra loro molti con la testa piena di mitologia comunista, nessuno può sostituirsi ai medesimi nello stabilire il destino di Atene, e meno che mai gli epigoni di Sparta, convinti di essere gli unici a poter indirizzare la sorte di un paese. I fantomatici mercati hanno reagito malissimo? Non sarà che agli speculatori pilotati dalla Trilateral, cui appartiene il malinconico Draghi, vada di contraggenio una piccola barca che sfidi i signori dell’euro? Lasciamo ai Greci la libertà di sbagliare, ammesso che davvero siano tutti indignados senza un briciolo di raziocinio, e forse un domani li potremo financo ringraziare.

giovedì 22 settembre 2011

Secedo, ergo sum

Tutti dicono abbia perso il fiuto e non sia più in grado di annusare l’aria che tira, prigioniero di un ‘cerchio magico’ dal diametro asfittico, sempre più stretto e sempre meno capace di quelle magie che scaturivano da una minuscola ampolla e innervavano lo spadone da celodurista sprezzante del capo padano. Di pugnace, all’Umberto, sarebbe rimasto solo il terzo dito, che ormai svetta più per irridere i gazzettieri che per aprire la via ai nemici di Roma ladrona. Forse a prenderlo sul serio è solo più quel nullafacente invecchiato di Casarini, il quale è uscito dal proprio letargo esclusivamente per guastargli la festa in laguna, giusto per copiare i pirlacchiotti in fascia tricolore che poco tempo prima i bravi pedalatori del Giro di Padania non hanno avuto il buon gusto di arrotare dopo la seminagione di puntine da disegno sul percorso del medesimo. A molti avrà fatto tristezza, e pure tanta rabbia, che il babbo del Trota si sia intestardito nelle scorse settimane a montare il cavallo sbagliato della difesa ad oltranza delle pensioni (quantunque sia ammirevole la lealtà, magari pelosetta, mostrata dai vertici belleriani nei confronti dei molti poveri cristi nordisti schifati dall’ennesimo indecoroso balletto in materia da parte di gente incapace di accennare un benché minimo mea culpa riguardo all’immane sperequazione previdenziale tuttora in vigore), oltretutto sponsorizzando l’idea perversa di imporre la patrimoniale ai presunti riccastri, nonché quell’autentico autogol rappresentato dall’aumento dell’IVA, che tanto nuocerà nell’immediato futuro alla nostra economia. Ecco, un Bossi così malridotto non lo vedevamo dai tempi del maledetto ictus, e forse un’operazione al gomito non è il viatico migliore per rinverdire i fasti del gesto dell’ombrello, come pure il guardarsi in cagnesco fra gli adepti della Marrone e i seguaci di Maroni, costretti ora, questi ultimi, a filarsi obtorto collo il ‘semplificatore’ Calderoli per non cadere sotto i colpi delle femmine terribili del capo, la Manuela e la Rosi, le ‘terronizzatrici’ in gonnella del più vecchio partito presente in Parlamento. Ma chi si domanda se valesse la pena far imbufalire il vegliardo quirinalizio, che guai a toccargli il giocattolone del centocinquantenario dell’unità d’Italia, al punto di farsi trattare come un cane in chiesa per avere riesumato l’idea della secessione padana, sia pure da ottenere attraverso un referendum peraltro impossibile, ancor più di una consultazione su temi fiscali, dimostra di non avere affatto capito, a distanza di più di vent’anni, lo spiritaccio del genio acciaccato di Cassano Magnago. Se continuiamo a lasciarci svillaneggiare dai prezzolati obamiti delle dannate agenzie di rating, che procurano orgasmi solo all’opposizione nostrana, il minimo che ci meritiamo è una rodomontata in stile pontidiano del vecchio Senatùr, rivoluzionario piccolo-borghese in disarmo, ma pur sempre in grado di tenere buoni i propri sindaci dinamitardi, molto più di quanto riesca al valido Alfano con le riottose truppe pidielline sempre in procinto di farsi sedurre dal bel Casini. Da secessionista convinto, so bene quanto poco valga la boutade in tal senso dell’antico Raìs, asserragliato nella Sirte varesina a causa della guerra di successione scatenata da personaggini timorosi del diluvio prossimo venturo. E se il PD ci può raccontare impunemente la balla di un Paese pronto al rinascimento se solo lo Smandrappavulve di Arcore togliesse l’incomodo, non vedo perché i barbari leghisti mazzolati dai delinquenti dei centri sociali non possano sognare il ritorno all’Eden grazie al divorzio dai succhiatori di capezzoli statali attestati sotto la Linea Gotica (quelli sopra sparirebbero d’incanto…?). Diamine, qui l’identità ce la depredano da almeno cinquant’anni, perciò non stupisca il coniglio riciclato da Bossi, che almeno non esibisce cilindri donde cavarlo.

giovedì 8 settembre 2011

Giramenti di ruote (e d'altro)

Teste di cucurbitacea. Hanno fatto confusione tra i portatori d’ampolle con l’acqua del Po e i portatori di borracce con l’acqua tout court per alleviare le fatiche dei compagni di pedivella, finendo per dare botte da orbi ai secondi: in testa a tutti, un vegliardo per nulla rispettabile, arrivato a superare il traguardo dei settant’anni con la grazia di un pirata delle volate, di quelli che sgomitano e ti tagliano la strada all’improvviso, pur di alzare le braccia al cielo, a costo di farsi retrocedere dalla giuria in fondo al plotone o addirittura di venire espulsi con ignominia. Peccato che, nel caso di cui si racconta, la giuria ideale sia stata poco pronta, di là che adesso penda una giustissima querela per lesioni sul caposcarico di turno, reo di avere allungato un cazzotto sulla faccia di Sonny Colbrelli, giovane di belle speranze del ciclismo italiano, impegnato a fare il proprio lavoro di pedalatore in qualità di ‘stagista’ (ovvero di dilettante in prova per il passaggio in una squadra professionistica) al neonato Giro di Padania, gara che alcuni manipoli di imbecilli con licenza di fracassare gli zebedei avrebbero volentieri visto abortita dai suoi organizzatori, cui non sono state risparmiate minacce e invettive ben oltre il limite del penale. La cartina di tornasole del livello di demenza al quale sono giunti gli esagitati seguaci del rifondarolo Ferrero, lontano mille miglia dall’eleganza del predecessore Bertinotti, è data dallo scherzo di pessimo gusto combinato dai medesimi all’avvio della prima tappa, allorquando hanno fatto sparire i cartelli indicatori del percorso, giusto per disorientare il gruppo dei partecipanti, considerati alla stregua di crumiri proprio nel giorno in cui l’archeologa mancata Susanna Camusso Jones partiva alla ricerca dell’arca perduta dell’alleanza fra i lavoratori, trascinando nella melma delle pernacchie il timido e irresoluto filosofo di Bettole, già smacchiatore di giaguari a tempo pieno (da Crozza alla cozza, nel senso del bulldog cigiellino, il passo è breve). E, insomma, gli agitatori di bandiere rosse, millantandosi quali difensori dell’unità d’Italia in un modo tale da farci sperare che si chiuda al più presto il centocinquantenario della stessa, sono talmente spaventati dalla paroletta ’Padania’ che il comprendonio, già carente in relazione agli accadimenti quotidiani più banali, si offusca loro in maniera irrimediabile, tanto da spingerli a menare all’impazzata chiunque non si conformi allo scarno pensiero fisso che li affligge. E’ chiaro che non si darebbe conto delle gesta di quattro gatti in calore ideologico, se costoro non danneggiassero profondamente con le loro unghiate il tessuto sociale e, soprattutto, se non trovassero il plauso dell’intellighenzia nostrana: paradossalmente, nella vicenda del Giro di Padania, a uscire magnificamente dallo scontro sono i ‘rozzi’ e ‘zotici’ per antonomasia, vale a dire il popolo leghista entusiasta della corsa, che oltretutto è venuta a riempire un buco nel calendario agonistico, causato dalla moria di tante gare dal solido pedigree, non più allestite per consunzione economica. E hanno un bel berciare gli ipocriti della ‘rosea’, quella Gazzetta dello Sport che, non essendo stavolta organizzatrice, irride e offende chi è stato in grado di confezionare un evento valido. Fra i campioni del passato, Francesco Moser è colui che ha parlato chiaro e forte della pelosità dei mugugni rossi: gente che ogni anno tira su il baraccone di piccole e grandi kermesse sponsorizzate dal mondo contiguo al partito della sora Bersanofia, e che va orgogliosa del Gran Premio Liberazione del 25 Aprile, dove, ai bei tempi, stravincevano sempre gli atleti sovietici, teme di perdere il monopolio e si aggrappa agli stridi delle cornacchie patriottiche. In compenso, il pilota di elicotteri Gianni Bugno guarda troppo dall’alto e con dispregio una manifestazione degna di sostegno: prendendosela con la federazione ciclistica italiana, che non avrebbe bloccato sul nascere l’idea del Giro di Padania, egli non fa altro che confermare il giudizio di quanti gli preferivano il grintoso e ‘proletario’ Chiappucci, che aveva il coraggio di dinamitare le corse invece di aspettare che i fidi domestiques gliele porgessero sul vassoio d’argento. Che si parteggi per la Lega o la si osteggi, è ridicolo il solo pensare che si favorisca la secessione del Nord (che, se mai dovesse avvenire, sarebbe causata da ben altre motivazioni – lo scrivo da secessionista convinto per principio, non innamorato dell’idea che ci si debba separare, ma persuaso che vi sia un’analogia con il divorzio fra persone sposate che reputino non più conveniente lo stare insieme), regalando spazio a una gara ciclistica, che è veicolo propagandistico più per le acque minerali che per i movimenti politici. Alberto da Giussano usò le quattro ruote del Carroccio per far vedere i sorci verdi a quel frescone romantico del Barbarossa: dubito che avrebbe avuto lo stesso successo con una bicicletta. La quale, invece, servì a un tale Bartali per rappacificare il Paese scosso dalle pallottole del siculo Pallante.

martedì 2 agosto 2011

La carica dei 101

Rosy Bindi come Crudelia Demon? Certo, se non si trovasse sempre fra i piedi quell’avanzo di bottiglia Molotov che è il Massimino Spezzaferro, bambino eroe dei fumetti con spocchia incorporata da uomo navigato in multiproprietà – un Icarus con le ali perennemente bruciacchiate dal sole di Puglia, un sole Tedesco nella sua implacabilità gravemente nociva alla salute, perso nel dedalo di un’intelligenza normale in un Paese anormale (o viceversa?) -, spoglio di illusioni nei riguardi della casta giudiziaria, ma solo quando parla con Spogli, e se eziandio non dovesse fare i conti con l’omino dei proverbi di Bettole, che tremebondo traballa aggrappato ai suoi Penati, c’è da giurare che la vergine di ferro del partito piddino piddò, fedele alla propria nomea di torturatrice, scuoierebbe personalmente ad uno ad uno, senza manco prezzolare un Orazio e un Gaspare, tutti gli inquisiti con tessera democrat in giro per l’Italia, che il Giornale si è preso la briga di contare, raggiungendo la ragguardevole cifra di centouno, almeno fino a ieri (e non è escluso che la solerzia dei togoni riesca a superare tale limite disneyano nell’intervallo fra la conclusione del presente articolo e la sua comparsa in rete). Dubito che l’eventuale spellicciamento dei dalmati progressisti susciterebbe il benché minimo sdegno in chiave animalistica, quantunque ancora il segretario dei rossicci arrugginiti cerchi di far valere per costoro la condizione di specie protetta. E’ chiaro, infatti, come il manipulitismo yé-yé degli anni Dieci abbia poco da spartire con la bufera dei Novanta, riguardosa della cortina di marmellata allora esistente tra i mariuoli rampanti, colti a sbevazzare Milano e il resto in nome del decisionismo mazzettaro poi seppellito dalle monetine, e i tetragoni ‘compagni G’ sorpresi per sbaglio dalle Parenti povere dei rivoltatori di calzini. Gli è che all’epoca agli ermellini necessitava ancora un marpione in regia, o forse la sinistra si illudeva che, una volta compiuto il lavoro sporco, la piemmeria sarebbe tornata nei ranghi, soddisfatta di avere contribuito al rovesciamento della classe politica dominante. E l’arrivo di un outsider cazzuto come il Cav, ritenuto all’inizio il figlio scemo del craxismo aborrito, se da un lato sembrò una complicazione in più, dall’altro servì egregiamente a convogliare le energie delle procure contro un nemico ‘altro’, tale da distogliere i mustelidi ormai infoiati oltre la spia rossa, ergo pericolosi perché eccitati dal sangue copioso, dall’occuparsi dei cazzacci della sinistra. Che oggi le procure si dedichino soprattutto al clan di Sesto San Giovanni (già Stalingrado d’Italia), ai voli in elicottero dell’ex governatrice umbra Lorenzetti, alle aste di Soru, ai maneggi di Pronzato (ferma restando la presunzione d’innocenza per ciascuno di loro), alle epidemie colpose della Iervolino (la nota comica non manca mai…), potrà rallegrare i semplici di spirito – oggi a me, domani a te, dopodomani quien sabe -, ma induce a ritenere che le toghe, da considerare tutto fuorché stupide, abbiano già visto di là dalla crisi del berlusconismo e si stiano portando avanti con il lavoro per esautorare definitivamente la politica. C’è qualcosa di peggio di un governo di tecnocrati e di banchieri, ed è un regime dei giudici. E non sarà una… ehm… Venere in pelliccia a rendere tutto più lieve.

domenica 24 luglio 2011

Il brutto anatroccolo che non divenne cigno

La notizia più terribile del maledetto 23 Luglio 2011 è, in fondo, la più scontata, al punto di non sembrare manco una notizia: Amy Winehouse è stata trovata morta nella propria casa, sembra per overdose (e non cambierebbe alcunché se, invece, ad ucciderla fosse stata una miscela di alcool e droga). Molti, sadicamente, se lo aspettavano; e molti, per il dannato business legato alla costruzione dei miti, che funzionano meglio da morti che da vivi, è possibile se lo augurassero anche. Sotto sotto, forse financo chi sta scrivendo, giusto per confezionare un bel coccodrillo, giacché, se non si celebra a cadavere ancora caldo, o non si depreca a tutto spiano, con cipiglio moralistico, il vuoto pneumatico indotto nelle nuove generazioni (e non solo in loro) dalla mitica ‘caduta dei valori’, che non siano quelli derivanti dal warholiano quarto d’ora di celebrità, cosa ci stiamo a fare? Be’, il quarto d’ora di celebrità di Amy è durato, a dire il vero, un po’ di più, e magari si sarebbe pure allungato negli anni a venire, se la ragazza non avesse inseguito così pervicacemente la propria distruzione, fino a raggiungere l’obiettivo. Era già tutto scritto nel testo della sua canzone più famosa, Rehab, dove la cicciottella inglese divenuta anoressica proclamava all’universo mondo di rifiutare qualsiasi tentativo di riabilitazione. Ci metteva anche una buona dose d’ironia, ma la sostanza rimane invariata: la sua musa autentica nuotava in bicchieri di vodka e si gingillava con le pasticche colorate, che le assorbivano tutto il colore dal viso di monella ostinata a entrare nel ruolo di bad girl, fino ad immedesimarvisi come non ne sarebbe mai capace una profetessa della trasgressione di plastica quale Lady Gaga. Il dramma di Amy è stato proprio non riuscire a separare l’immagine dalla realtà: stava male sul serio e non giocava alla donna dello scandalo. Il suo vomito sul palco non era un trucco di scena, né la perdita della voce – stupenda, da negra vibrante e incantatrice – era un alibi per annullare i concerti. Di lei, ci resteranno due capolavori del soul (occorre ricordare che tale parola si traduce con ‘anima’?), i dischi licenziati all’esordio nell’arco di tre anni, dal 2003 al 2006, che paiono così remoti nel mondo effimero del pop: il primo, Frank, ripudiato dalla stessa Amy (“non riesco più ad ascoltarlo”); il secondo, Back to Black, nero nel titolo e nell’interpretazione, schizzato da subito in cima alle classifiche di vendita, presagio di quella nemesi che talora colpisce chi troppo in fretta sia baciato dal successo. Baciato dalla sventura della fragilità, piuttosto, se si volge al negativo il proprio talento, aiutato da compagni di strada più intenti a godere del riflesso della tua notorietà che a salvarti da un’evidente patologia dello spirito. A posteriori, risulta facile sentenziare che nessuna salvezza sarebbe stata possibile per la giovane cheap metamorfizzata, ma solo su disco, in sophisticated lady: troppo il divario fra il sembiante e il percorso di vita, tragicamente simile – anche se concentrato in pochissimi anni - a quello delle grandi dive del jazz degli anni Quaranta, da Billie a Sarah. Il contrappunto grottesco, fornito dalla capigliatura cotonata e dal senone impiantato sul corpo da uccellino, apparteneva alla scenografia, che oggi ci restituisce solo amarezza e rabbia. Sulla rete-immondezzaio ci dicono circoli un video con Amy strafatta di crack, ma non andremo certo a cercarlo. Questa aberrazione ci conferma nell’idea, poc’anzi esposta, che i costruttori di miti, cui non importa un fico secco delle persone, fossero già preparati a portarsi avanti nel lavoro post mortem: d’altro canto, la perversione nichilista si abbevera quotidianamente alla fontana degli imbecilli, che non sanno distinguere fra la sana sofferenza per i mali dell’umanità e il tristo fardello delle paranoie personali, spacciato per sensibilità esasperata. Il circolo è più vizioso di quanto si creda: in alto stanno gli avvoltoi, in basso le carogne, ma la processione degli uni e delle altre è continua ed assomiglia a uno scambio culturale. L’unico atto di pietà legittimo nei riguardi di Amy è riascoltarne la voce, non innalzarla su un altare rovesciato. E, come abbiamo in uggia il grido ‘santo subito’, ci disgusta ugualmente, se non di più, la beatificazione dei dannati e la corona d’alloro per i perdenti, che è solo una squallida parodia del Discorso della Montagna.

lunedì 11 luglio 2011

Eolo truffaldino e stupratore di paesaggi

Saviano può pontificare catodicamente di mafia in Padania, financo a ragione, sbrodolando pure su connivenze legaiole, con il pedigree che si ritrova, ma si guardi bene Sgarbi dall’imitarlo nel feudo della popstar orecchinuta Vendola, stante la vigilanza dei pasdaran nichiani, i quali non si lasciano infinocchiare dall’eloquio di un tizio cui in passato venne contestato il concorso esterno in associazione mafiosa, noto agit-prop al soldo del satrapo arcoriano, certo scottato dal ceffone rimediato in pieno volto al referendum sul nucleare, tanto da spedire il proprio scherano tricotillomaniaco a sproloquiare di energie rinnovabili marchiate con il segno della bufala e per sovrammercato generatrici di mostri sconcianti il paesaggio. E ha un bel protestare, il critico d’arte recentemente infilzato dalla Lorenza Lei e subito dopo oscurato per gli scarni ascolti del suo ultimo programma televisivo (per inciso, un po’ scombiccherato, ma molto meno soporifero della ciofeca condotta dal tipetto con il copyright dell’antimafia), di non avere manco menzionato il ras apulo nella sua veemente intemerata polignanese contro la gran rottura costituita dalle pale eoliche infiorettanti il Tavoliere, che in primis devastano la bellezza dei luoghi e in secundis olezzano, anche in assenza di vento, di combutta con la malavita degli appalti. Quant’è lunga la coda di paglia, o di Puglia, dei tifosi del governatore pellegrino per l’Italia? Hanno forse letto nella perorazione sgarbiana ad abbattere quegli orridi simboli fallici (altro che celodurismo pontidiano!) uno sfregio all’immacolato agire del Vendola loro? Sono persuasi che la rivoluzione prossima ventura, come la risposta cercata da Bob Dylan, sia nel vento che spazzerà, insieme all’incubo nucleare, ogni patema energetico per le generazioni future? Prepariamoci a indossare gli zoccoletti olandesi e a coltivare tulipani (ché i pomodori già li abbiamo, per contrastare quelli che crescono nelle serre fiamminghe, e pure i clandestini da far chinare per raccoglierli, in luogo dei diplomati e laureati da lasciare a zonzo a progettare su Facebook agguati ai matrimoni dei politici), giusto per entrare nella parte di quelli che fischia il vento, ecc. ecc. (un classico per certa gente). Chi sa come li invidiano a Trieste, dove pure soffiano refoli che manderebbero avanti, a giudicare dall’entusiasmo dei vendoliani verdissimi, tutte le fabbrichette del Nord-Est. Figuriamoci se nelle teste sciroccate dei contestatori di Sgarbi non c’è uno scirocchetto da nulla, o uno zefiro gentile, che faccia funzionare tutte le sale chirurgiche della sanità pugliese. Per costoro, vi è da supporre credano alla germinazione spontanea delle fantastiche pale. E per il paesaggio, nessun problema! Basterà spostare l’occhietto per ammirarlo ugualmente.

sabato 18 giugno 2011

Nessuna frattura per la vecchia costola

Dicono di avere vinto i referenda, ma sono sempre ad aspettare che qualcun altro tolga loro le castagne dal fuoco, perché da soli non riescono manco a fare pipì. Gli eredi del glorioso PCI sono ridotti all’accattonaggio politico e sperano nel buon cuore dell’Umberto, che si dovrebbe commuovere tornando a calcare il pratone di Pontida, al punto di fare l’elemosina alla povera Bersanofia con la manina adunca in attesa dell’uscita dei fedeli dalla funzione domenicale, giusto per raccattare qualche spicciolo di carità. Il premio grosso per tanta attesa sarebbe l’annunzio da parte del gran capo leghista di voler procedere al licenziamento in tronco di Berlusconi, come se questi fosse il maggiordomo rincoglionito e pasticcione da cacciare a calci in culo per la gioia della plebaglia assiepata fuori dalla casa padronale. Per il popolo rosso e rossiccio, ciò costituirebbe il vero risarcimento per la delusione patita con il principe di Montecarlo, il tortellino intortato dal perfido Cav agli albori della storiaccia del bunga bunga, anch’essa foriera fallace di speranze tramortite di là dalle manovre ancora in corso della feldmarescialla Bokassa. No, gli scialbi epigoni di quel Togliatti, che invano anelò stampare l’orma dei propri scarponi chiodati sulle terga di De Gasperi, non si possono accontentare che un barbaro discendente dal ramo eretico della loro pur vasta famiglia, l’erulo Pisapiacre - avente per sponsor il primo tesserato piddino piddò ispiratore della filosofia uòlteriana, oggi considerata sconveniente dai generali raccolti intorno allo Smacchiatore di Giaguari -, abbia costretto all’abdicazione Letizia Augustola, ultima imperatrice mediolanense. Essi vogliono, sempre vogliono, fortissimamente vogliono, al pari di quel frangiscroto dell’Alfieri, l’annichilimento di Silvio, che non è un fanciullo cantato dal poetastro Vendola, bensì l’attempato signore che frantumò la macchina da guerra di Achille Cerebro Veloce, più rapido a cambiare la ragione sociale del loro partito che a prevedere la tranvata in cui sarebbe incorso per mano del summenzionato. Al pari dell’Alfieri, gli stanchi replicanti del fustacchione Pajetta si fanno legare, non alla sedia, bensì al totem del momento, tipo il quesito taroccato di un referendum farlocco, per menare poi vanto di averle suonate al Suonato di Arcore. Adesso tampinano il Senatùr quasi fosse una green lady concupita da un assicuratore bietolone, come ne La fiamma del peccato, con la differenza che stavolta l’esecuzione materiale del delitto spetterebbe alla maliarda, che dovrebbe eutanasicamente staccare la spina all’ingombrante marito, affaticato dai bunga bunga di cui sopra. Ma il Bossi, benché padre di una Trota, non è un merluzzo che si impolenti facilmente, soprattutto conoscendo l’indole dei polentoni che finora lo hanno seguito nel bene e nel male. Ai polentoni il Berlusca forse non gusterà alla follia, ma vi è da credere che nessuno fra loro sarebbe così fesso da consegnarsi a Bersani e a chiunque venisse dopo di lui. Il padre-padrone della Lega, già divoratore dei propri figli come Saturno, non vorrà essere divorato a sua volta: come ultimo grande animale politico di quest’Italia più terrona che padana, blandirà i suoi Celti dalle lunghe corna con proclami tonitruanti sul fisco e minaccerà con juicio l’alleato semibollito, accordandogli nuova fiducia condizionata e lodando l’opposizione del fido Sancho Maroni all’avventura neocoloniale in Tripolitania. E lascerà di princisbecco l’uomo di Bettole, che non potrà riempire i propri Quaderni Piacentini con nuovi peana alla vecchia ‘costola della sinistra’. Compagni, accontentatevi della Bindi come vostra Eva!

mercoledì 15 giugno 2011

Il senso di Nichi dell'acqua

Il partito della stearica l'ha infilata dritta nell'orifizio inferiore di sessanta milioni di persone. Continuo a domandarmi ossessivamente quale marchingegno studierà l'Orecchino Apulo per aggiustare le falle nell'acquedotto di pertinenza delle amministrazioni, destre o sinistre che siano, obbligate a relazionarsi con la lungimiranza di Nichi il Commosso Viaggiatore, che passa più tempo fuori dalla propria regione assetata di quanto ne trascorra a contatto con i buchi della medesima, siano essi metaforici (leggasi: nel bilancio) o reali (nei tubi che portano l'acqua). O ci mette il ditino - ma dovrebbe avere le braccia di cento dee Kalì - o ci appiccica le gomme masticate dai suoi assessori durante le sedute di giunta.

martedì 14 giugno 2011

Sindrome di Calimero di un vincente

La notizia cattiva è che il Cav ha perso il referendum indetto dalle sinistre contro di lui. Quella buona è che, alla fine della fiera, nessuno lo può obbligare a riconoscersi perdente, e di conseguenza a dimettersi, giacché i suoi avversari, in luogo di porre la domanda secca: “volete che il Mostro di Arcore sia bruciato sulla pubblica piazza?”, hanno inscenato un balletto farlocco su quattro quesiti dalla risposta intercambiabile, nel senso che solo ragioni di mera convenienza politica hanno spinto la sinistra più pusillanime a fare campagna per il ‘sì’, senza minimamente crederci (almeno in tre casi, essendo il legittimo impedimento un falso problema), solo per sfruttare lo tsunami di falsità seguito alla catastrofe nipponica e l’eterna dabbenaggine del popolo-bue riguardo al mantra sgarrupato ‘pubblico è bello’. Per il nucleare, ci avevano pensato le cariatidi della Consulta, amiche di non si sa bene quale giaguaro, a sparigliare le carte, con una decisione anticostituzionalissima, peraltro non sanzionabile da alcuno – chi avrebbe potuto far dimettere quei giudici? -, ‘novando’ il quesito dei promotori in maniera tale da stravolgerne il significato, che ha finito per risultare opposto agli intenti di chi lo aveva lanciato. Di fatto, da oggi non abbiamo linee di politica energetica tout court, altro che annichilimento dell’atomo. Per l’acqua, abbiamo assistito al capolavoro di Bersani, che è riuscito a rovesciare diametralmente la propria posizione di sei mesi fa. Rimane il peso del pronunziamento anti-Silvio, che non è cosa né buona né giusta cercare di nascondere sotto il tappeto, e che, lungi dal suonare come un campanello d’allarme, rimbomba alla stregua di un assolo di batteria dei Metallica. Avremo un bel dire che è la solita sinistra barricadiera e inconcludente a invocare l’uccisione del Caimano, perché stavolta non è vero: non possiamo pensare che la sinistra, inconcludente e barricadiera, abbia così tanti seguaci. E’ il Berlusca ad avere perso consensi, non gli aspiranti tirannicidi, troppi e divisi, ad averne acquistati. La perdita di consensi nasce dalla perdita di credibilità: a poche ore dal voto referendario, ci è stato promesso l’ennesimo abbassamento delle tasse, con una coincidenza troppo sospetta per non suscitare perplessità. La riforma della giustizia è forse decollata? Il partito del premier ha un nuovo segretario scelto dal Cav in persona, degnissimo giovane di cui si ignora lo spessore politico, e ciancia di primarie come della panacea in grado di mettere il turbo al cambiamento in minima parte realizzato negli ultimi diciassette anni, di cui una decina trascorsi al governo. I togaccioni remano contro? I confindustrioti pensano solo agli affaracci loro? De Benedetti trama per prendersi tutto il piatto? I gazzettieri leccano i ‘poteri forti’ avversi? I terzopolisti rompono in ogni occasione e si vendono al miglior offerente, guarda caso sempre diverso dal Cav? La D’Addario e Ruby Rubacuori distraggono l’attenzione? L’abbronzato della Casa Bianca e le teste di cavoletto di Bruxelles si mettono di traverso? Cesare Battisti gioca all’esule perseguitato? Il marito di Carlà vuole soffiarci il petrolio libico? Le agenzie di rating ci promuvono e ci affossano nello stesso giorno? Tremonti non scuce un soldo bucato? Sì, Berlusconi fino a ieri è stato uno splendido piazzista, ma il prodotto che abbiamo in mano ha già superato da un pezzo il periodo di garanzia, e il venditore non si è mostrato in grado di farlo funzionare a dovere, forse perché affetto dalla sindrome di Calimero, piccolo e nero. Basteranno i due anni in teoria restanti a Silvio, e che prevediamo tormentatissimi, per farci cambiare idea?

martedì 7 giugno 2011

Togoni casseurs amici del giaguaro e sinistri truffaldini e pirlotti

http://www.legnostorto.com/index.php?option=com_content&task=view&id=32159

Togoni casseurs amici del giaguaro, ma di quale? Se si raggiungesse il quorum, avremmo di sicuro una vittoria schiacciante dei 'sì', giacché non è pensabile che la maggioranza degli antinuclearisti, considerato il rintontonimento propagandistico in atto da parte dei fautori del ritorno alla stearica, si stia
preoccupando dell'effettiva rispondenza dell'esito della consultazione ai propri
desiderata, coincidenti piuttosto in questo momento con l'ennesimo ceffone
all'odiato Berlusca - identificato con il volto bieco del progresso incurante di
altro che non sia l'interesse economico -, e solo in secondo luogo con lo
scongiurare il risorgimento dell'atomo. Avremmo così il paradosso di un
referendum in contrasto con l'obiettivo più che probabilmente voluto dalla
maggioranza dei cittadini che si recassero alle urne. Pur da nuclearista
convinto, rimango schifato di fronte a tanta superficialità e a tanto sprezzo,
peraltro non nuovo, della volontà esprimibile tramite il voto. Si cerca il
deragliamento preventivo della scelta popolare, usando come specchio per le
allodole il livore nei confronti del Cav. Di là che forse una pletora di
pirlotti accecati dalla mitologia antiberlusconiana sposata con un luddismo
becero figlio dell'emotività si meriterebbe una conclusione del genere, non sarà
che la sinistra più cinica voglia tenersi aperta la strada per una futura
conversione a 180°?

venerdì 3 giugno 2011

Giungla aiazzonica

Le Tigri di Mofreghem hanno fallito l’arrembaggio e adesso si sentono più cornute e mazziate di prima, ammesso che fra loro ci fossero davvero i clienti truffati dai gestori del mobilificio Aiazzone, vale a dire la triade succeduta ai vecchi proprietari dell’azienda fondata dall’omonimo imprenditore piemontese, morto in un incidente aereo giusto un quarto di secolo fa e del quale si vociferava avesse stretto un patto con il diavolo per giungere al successo, patto arrivato a scadenza proprio al momento della disgrazia. D’altro canto, l’alone di sfiga che circonda l’ex impero del mobile a basso costo non è una novità: dalla scomparsa del fondatore, il declino del marchio ha proceduto inarrestabile, fino a costringere gli eredi alla svendita nelle mani di personaggi incapaci di riportarlo agli antichi fasti, anzi, bravissimi ad affossarlo del tutto con un fallimento presumibilmente pilotato in vista della razzia da compiere ai danni di dipendenti e acquirenti. Pur con tutte le riserve del caso, cui è obbligato ogni garantista ad oltranza che si rispetti, rimane la sgradevole impressione che la vicenda si sia svolta nel segno dell’arraffamento. E ad arraffare ci hanno sicuramente provato i prodi assaltatori del magazzino di Pognano, in provincia di Bergamo, posto sotto sequestro dall’autorità giudiziaria in attesa del processo che dovrebbe stabilire le responsabilità del crac e l’entità dei risarcimenti alla lunga lista di creditori. Dal mese di Gennaio in avanti, sembra proprio vi sia stato uno stillicidio di tentativi di furto all’interno del fabbricato ospitante la pletora di mobili ed elettrodomestici costituente il patrimonio tangibile della società. Erano duecento, di tutte le età e multietnici (molti immigrati conquisi dal sogno della cameretta e della cucina pluriaccessoriata), e certo forzuti, per il lavoro che si prefiguravano, di asportazione la più massiccia possibile, e sono stati pescati mercoledì pomeriggio, quindi alla luce del sole, dai carabinieri al servizio del capitale, che non hanno avuto pietà e ne hanno identificati una quarantina, come i ladroni di Alì Babà – i meno svelti a posare gli arredi, quattro pirlotti quattro, si sono beccati la denunzia per furto. Ora, di là dalla fessaggine di presentarsi in corteo in pieno giorno, con un codazzo di camion e furgoni, in un’area occhieggiata dalle forze dell’ordine per episodi ben conosciuti in tutto il circondario, non sembra ozioso interrogarsi se un’azione del genere non sia stata piuttosto organizzata con altre modalità dal semplice passaparola fra vittime di una truffa e con fini molto meno romantici di una giustizia fai-da-te, che peraltro, mentre affascina al cinema e in letteratura, nella realtà risulta un gigantesco gesto dell’ombrello rivolto a tutti gli altri defraudati, che non per questo si sono messi in condizione di infrangere la legge. E, ancora, non sarà che, per tale genialata, si siano radunati invece tutti i furbetti della zona, per sfruttare a proprio vantaggio la frustrazione degli onesti compratori di mobili, derubati di caparre e di speranze, vieppiù frustrati dalle lungaggini della malagiustizia? No, sti Robin Hood del self service non ci gustano mica, e non solo perché gratificati subito dalla comprensione pelosa del rifondarolo Ferrero, e financo di qualche toga in libera uscita fregnacciara, che ci spinge a mal pensare su come finirà questa storia di esproprio piccolo-borghese, se incocciasse nel martelletto di un giudice fantasioso o casseur , ma anche e soprattutto per averci ricordato come ormai viviamo in una repubblica fondata sul non pagare dazio. Sarebbe vergognoso che i veri derubati dovessero aspettare le calende greche per avere diritto a una misera elemosina e, nel frattempo, gli altrettanto veri derubanti fossero acclamati come eroi del nostro tempo.

venerdì 27 maggio 2011

Se canti, ti suono!

Se ce l’avessi, a questo punto infilerei nel lettore un CD di Gigi D’Alessio. Magari mi andrebbero di traverso e l’aperitivo e il pranzo, ma stoicamente mi acconcerei ad ascoltarlo fino all’ultima traccia. Il guaio è che non ce l’ho, per il semplice motivo che, musicalmente parlando, detesto il menestrello neomelodico partenopeo e non ho in particolare simpatia, sempre sul piano delle sette note, manco quel gran pezzo di figliola di sua moglie Anna Tatangelo. Colto da sindrome dissociativa, altrimenti detta schizofrenia? No, almeno spero, considerando che il mio sacrificio sarebbe nel segno della solidarietà. Verso il cantante napoletano, fresco reduce dalla rinunzia a esibirsi nella serata di chiusura della campagna elettorale di Letizia Moratti causa minacce. E minacce mica da ridere, apparse sulla pagina Facebook dell’attempato scugnizzo subito dopo l’annunzio di avere accettato l’invito a spiegare l’ugola per la sindachessa uscente in quel di Milano, rivoltogli dall’organizzatore di eventi musicali Red Ronnie, un tizio che avevamo lasciato a crogiolarsi sotto il rosso sole dell’avvenire e che, alquanto inopinatamente, ci ritroviamo nello staff di madama Brichetto Arnaboldi. Bella conversione, quella del bolognese raccoglitore di memorabilia del mondo rock e dintorni, cui evidentemente non gusta l’estremismo soffice dei pisapiadi impegnati a contendere il territorio ambrosiano a una Moratti improvvisamente danzereccia e canterina pur di raggranellare quel pugno di voti che le garantirebbe di rimanere ancora in sella per cinque anni, a dispetto di gente invero già persuasa di avere conquistato la roccaforte meneghina. E che, proprio per tale convinzione, dà fuori di testa nella realtà e pure nella rete, se una stella di prima grandezza del firmamento canzonettistico nazionale decide di sostenere l’avversaria. Al punto di promettere, i fuori di testa, un’esecuzione (non musicale) del reprobo canterino e della di lui famiglia, qualora persistesse nell’insano proposito. Gigi ha gettato la spugna, spaventato e avvilito dal repentino giramento di spalle di molti suoi sedicenti fan, che oltretutto gli hanno ributtato addosso vecchie accuse di camorrismo, quantunque sia presumibile che una parte cospicua di essi, in altri tempi, di quelle stesse accuse si sia sempre fatta un baffo, non curandosi che il loro idolo avesse costruito la propria fortuna intonando canzoni ai matrimoni di tanti presunti capi e capetti della camorra. Ma tant’è, dopo gli anatemi savianeschi, pure la Moratti è in odore di ‘guapparia’ e così torna buono sto transfer da scaraventare addosso a D’Alessio. Il quale magari non piacerà a Lettieri, e tampoco a De Magistris, che di certo preferisce il ça ira quale colonna sonora della propria campagna, donde la scelta dell’artista di emigrare in Lombardia, scontrandosi per sovrammercato con i mugugni leghisti. In effetti, sembra vi sia stato un tiro incrociato di seguaci di Pisapia e di nemici dei terroni: una miscela micidiale che ha convinto Gigi a desistere. Personalmente, non ho mai prostituito i miei gusti musicali a quelli politici. Di là dal trovare intollerabile la levata di scudi contro un personaggio dello spettacolo non allineato al conformismo dell’ambiente, mi ripugna questo subordinare all’idiosincrasia faziosa l’apprezzamento per un artista. Amo tuttora le canzoni di fior di cantautori che hanno legato il proprio talento allo sgangherato, ma spesso vincente, carro della sinistra: considero tuttora un eccellente autore Francesco Guccini (ma la sua canzone sul Che è una vera ciofeca, a prescindere dall’ideologia), come pure Francesco De Gregori, che passò le sue dopo avere scritto Viva l’Italia, in un’epoca in cui ancora il patriottismo non era stato fagocitato dai nipotini di Marx. Vabbuò, Gigi, mi sa che rinunzierò a bearmi delle tue melodie languorose, ma per stavolta non ti sfrucuglierò: spero che la Moratti si ricordi di ringraziarti, se mai dovesse prevalere sull’avvocatino stinfio amato dal Leoncavallo, dove la musica di sicuro è diversa dalla tua: un gran rumore di chiavi inglesi e di spranghe, come ai tempi degli Inti Illimani.

giovedì 26 maggio 2011

I muscoli dell'ermellino

Si diffonde a macchia d’olio la perniciosa convinzione che la giustizia, o è esemplare o non è. Chi se ne frega degli stiracchiamenti del codice, delle forzature nelle indagini, dell’uso contundente delle norme? Qui bisogna colpirne uno, dieci, cento, per educarne mille, diecimila, centomila (forse la massima prediletta da Mao Zhedong, il Grande Timoniere della Rivoluzione, ormai introiettata dai piccoli timonieri delle procure, incuranti di condurre le loro picciole barche al naufragio in vista della montagna del Purgatorio). Qui si lanciano accuse gravissime, in quella che ci dicono sia stata la culla del diritto e che ormai ne è soltanto la tomba, giusto per mostrare i muscoli e confermare che, sì, la legge è uguale per tutti e, pertanto, noi spezzeremo le reni a tutti, ma proprio a tutti. Il sogno dei Vishinskij de noantri sembra il processo continuo, che fa pendant con il concetto trotzskista di rivoluzione continua, da istruire per ogni occasione e in ogni condizione, meglio se mancano i presupposti giuridici. Tanto, che alla fine si arrivi alla condanna o all’assoluzione di gente cui, nel frattempo, sarà stata distrutta in ogni caso la vita e la carriera, è particolare irrilevante: quello che importa è tenere ben oliata la macchina, affinché non smetta di perseguitare i colpevoli di ogni minimo gesto, dall’avance timida con un mazzo di fiori assimilata allo stalking caro alla ministra Carfagna (mai sentito parlare del buon vecchio reato di molestie?) all’oroscopo sbagliato sulla rivista dal parrucchiere, che avrebbe condotto – l’oroscopo, non il parrucchiere – al disastro in borsa della signora Cesira. E’ bastata un’ora di camera di consiglio ai giudici per le udienze preliminari del tribunale dell’Aquila e, zac!, i vendicatori non mascherati (la maschera, l’avremmo caldeggiata per motivi di pudore) hanno individuato gli untori per il sisma del 6 Aprile 2009 nei sette esperti della Commissione Grandi Rischi, che sottovalutarono i possibili esiti dello sciame di scosse antecedente il disastroso terremoto del capoluogo abruzzese, che causò la morte di oltre trecento persone e il ferimento di altre milleseicento. Ebbene, quei professori così poco preoccupati all’epoca adesso si dovranno preoccupare di difendersi da un’imputazione per omicidio colposo plurimo e lesioni: una bazzecola piombata loro in testa abbastanza inopinatamente, di là dalle leggerezze che, a posteriori, si postula abbiano commesso nel valutare i segnali premonitori del sisma. Ora, delle due l’una: o nel frattempo, zitta zitta, la scienza ha trovato il modo per prevedere i terremoti, oppure gli stimatissimi togoni aquilani stanno pigliando lucciole per lanterne, andando ben oltre le proprie competenze e il buon senso, al solo fine di beccare un capro espiatorio per l’immane tragedia. E, certo, ci si può interrogare sull’effettiva utilità di commissioni come quella posta sul banco degli imputati, che non avrà svolto gratis et amore Dei il compito assegnatole – ma questo è un discorso che pertiene a tutt’altro ambito. Tuttavia, non violentiamo la legge, estorcendole ciò che vorremmo dicesse e non può dire, a meno che non si cambino i presupposti stessi del diritto: al più, gli scienziati della commissione potrebbero essere stati negligenti (il che è tutto da dimostrare), ma non hanno scatenato il terremoto. In base alle loro conclusioni, non sono state adottate precauzioni che avrebbero salvato molte vite? Gli studiosi, al massimo, avrebbero potuto suggerire alcune misure, ma queste, in ultima analisi, spettano alle autorità: perché prefetto e sindaco si sono fidati ciecamente delle teste d’uovo, se avevano avvertito la necessità di interpellarle? Esiste un reato che si chiama ‘procurato allarme’ e nessuno voleva essere chiamato a risponderne. Se si ritiene che gli esperti abbiano sbarellato, possibile non vi siano correi? Meno male che la fattispecie ipotizzata è colposa, giacché di questi tempi non si sa mai… Chi sa perché, ci viene in mente la profezia farlocca sulla distruzione di Roma, che sarebbe dovuta avvenire l’11 Maggio, giusto quindici giorni or sono: nessun esperto a sentenziare, se non un tizio morto da anni, quindi non imputabile di ‘procurato allarme’, e la città che si svuota…

lunedì 23 maggio 2011

Ophelia agente del Mossad?

Sì, ci può stare, anche perché era di dominio pubblico, che Dominique Strauss-Kahn stazionasse sugli zebedei dello zio Sam. Ci può stare che gli USA bramassero averlo fuori dalle scatole al più presto, per impedirgli lo scherzetto di togliere al dollaro il monopolio monetario negli scambi internazionali, magari per mettere sul trono la ciofeca unica europea, che peraltro seduce di più gli operatori di quanto riesca da lumga pezza al faccione di George Washington. DSK anelava spedire in soffitta gli accordi di Bretton Woods, vecchi di più di sessant'anni, e già spinti in un angolo negli anni Settanta da Tricky Dicky, alias Richard Nixon, all'epoca becchino del gold standard, vale a dire della convertibilità in oro del biglietto caro a zio Paperone. E questo avrebbe significato una botta mortale per l'economia a stelle e strisce, che sarebbe stata aggredita da uno tsunami inflattivo di proporzioni bibliche. Ergo, l'individuo andava fermato con ogni mezzo, compreso lo sgancio di un'atomica mediatica sul suo capoccione di son of bitch maniaco perso della cosina. Sì, sembra che l'America non abbia tremato di fronte alla prospettiva di distruggere vita e carriera di un potente che si presumeva onnipotente: non essendo riusciti a 'impicciare' quel bambolotto bugiardino del marito della signora Rodham all'epoca in cui Monica filava, ai puritani è rimasto il trauma, con la voglia di far tombolare un suo pari grado, e finalmente la vendetta si è compiuta, grazie a una bonne d'hotel talmente indiscreta da intrufolarsi nella suite del cliente più prestigioso malgrado la luce rossa sull'uscio. I complottisti hanno deciso che la tentatrice fosse al soldo del Mossad, e questa è forse la nota più sorprendente dell'intera vicenda e anche la meno credibile. Però, a pensarci bene, le maggiori banche d'affari statunitensi, le stesse salvate da Obama, sono tutte in mano a finanzieri ebrei... Lo stesso DSK non ha sangue ebraico? Insomma, la solita cospirazione giudo-pluto-massonica. Liberi di crederci oppure no.

Foeura di ball i ministeri!

Sono affezionato alla Lega, ma la capisco sempre meno e anche mi ritrovo spesso con i dicotiledoni vorticanti per le sparate dei colonnelli di Bossi, oltretutto meno folkloristiche e divertenti di quelle di un tempo, quando il movimento nordista aveva la percezione piena degli umori popolari. E' forse il destino di chi, lottando lottando, alla fine si scopre issato su una comoda cadrega sideralmente distante dal luogo donde era partito? Lo stesso ruvido eloquio umbertiano - tranne nei casi sempre più rari di resipiscenza, quando sorge il sospetto che il foeura di ball dovrebbe essere pronunziato più spesso nei confronti di svariati soggetti, se non altro con funzione apotropaica - è quasi divenuto un pigolio doroteo, senza avere acquisito la morbida sfrontatezza di quei callidi democristianoni a mollo nell'acqua santa financo mentre sbrigavano i loro affari meno spirituali. Ed è triste la perdita dell'alone sulfureo e pagano dei vecchi pseudocelti, la cui mitologia ampollosa poteva e doveva far sorridere, ma fungeva benissimo da contraltare a quell'altra, salamellosa, dei nipotini superstiti di Stalin. Che Alemanno e la Polverini, povere anime, paventino lo scippo dei ministeri ai danni di Babilonia ladrona, è squallidamente scontato, in questo ridicolo tiro alla fune fra municipi. E dubito che siano certe promesse (o minacce?) a scuotere le orde bossiane di stanza in Mediolano, affinché si precipitino sulle urne sorde e grigie per salvare Letizia Augustola dall'assedio dell'erulo Pisapiacre.

mercoledì 18 maggio 2011

Piccola storia nobile

Bella storia, commovente il giusto: quel tanto che basta per pigliare un fazzolettino di carta e soffiarvicisi il naso, dopo un piantino liberatorio. Gli è che le toghe hanno un cuore e si preoccupano per il destino di tre creature indifese, smentendo quei cattivoni che le sospettano di tramare sempre contro la Giustizia con la maiuscola per inconfessabili mene politiche. Qui la politica non c’entra nulla, giacché stiamo a parlare di mafia, che notoriamente riguarda solo terzi e quarti livelli, costituiti da rappresentanti del popolo gaglioffi, i quali si spacciano talora per umanisti dediti alla cultura e alla ricerca storica – e, infatti, è dell’anno scorso la vicenda orribile di un capobastone sorpreso su quel ramo del lago di Como (o forse era quello opposto?) a spacciare un proprio comizio di reclutamento di picciotti per una serata di presentazione di fantomatici diari di un personaggio storico già colluso con la mafia al punto di mandare un suo scagnozzo, tale Mori, fin giù in Sicilia per fingere di menare colpi mortali agli uomini di panza dell’epoca, un po’ come sta facendo ora un suonatore di sax con gli occhiali rossoneri, strappato alla balera per vestire i panni di ministro in un governo pieno di quaquaraquà. Insomma, è mo’ da lunga fiata che i boss latitanti si lasciano beccare, ma i giudici che vigilano mica ci cascano: qua è tutta ammuina e 41 bis, che poi il bis non te lo giochi al lotto e funziona meglio il gioco dei pentiti, che magari ti consentono financo di entrare in parlamento a sfornare nuove leggi, ché intanto quelle esistenti le hai già massacrate con il martelletto a inchiodare sentenze fantasiose, quando le sentenze ci sono e non hai trascorso i mesi a ponzarci sopra senza guardare il calendario, così da far scadere i termini per la detenzione, che è un po’ come far scadere lo yogurt in frigorifero: uno spreco di latticini e di neuroni e pure di soldi (i primi li impiegasti per laurearti in Giurisprudenza e i secondi sono quelli sborsati dai genitori per mantenerti agli studi). Oddìo, ho divagato troppo e ancora non ho affrontato la lacrimevole storia del picciotto spedito agli arresti domiciliari da un giudice dal cuore capiente, che è poi la ragione di quest’articolo. Be’, se qualcuno pensasse che abbia voluto allungare il brodo per la pochezza della notizia, non andrebbe lontano dalla verità: in effetti, se ci sono mafiosi depressi, certificati come tali da medici coscienziosi (son tutte fole vi sia un commercio di fogli della mutua attestanti la patologia summenzionata: mafieggiare stanca e stressa più del semplice lavorare e Pavese era un dilettante), non si vede come non possano esservi mafiosi compresi della cura della prole, che mica si affida al primo venuto, alla tata o al nido. Lo ha esplicitato un gip palermitano, che ha mandato a casa un affiliato (a onor del vero, solo presunto) a una cosca di Partinico, il quale si trova nella condizione di dover badare a tre figli piccolissimi durante l’assenza della moglie lavoratrice. Per carità, non mettiamo in dubbio che sia così, e pensiamo immediatamente al grande senso della famiglia che hanno i mafiosi, e poi si sta parlando al massimo di un untorello (presunto!), ma qualcosa non ci sconfinfera: siamo in un paese dominato dagli assistenti sociali e, appunto, dai giudici, che non ci pensano due volte a sottrarre un bambino ai poveri diavoli onesti per il solo fatto di essere indigenti. E più non dimandare.

martedì 17 maggio 2011

Ornitocrazia fasulla

Puzza di bufala lontano un miglio, ma intanto il potentissimo direttore organizzativo del Fondo Monetario Internazionale e aspirante candidato presidenziale all’Eliseo, Dominique Strass-Kahn, se ne sta in bujosa a riflettere sui guai che la passione per le donne potrebbe arrecargli nell’immediato futuro: tale Cyrus Vance jr., procuratore distrettuale niùiorchese con la fissa delle aggressioni sessuali da reprimere anche quando non esistono (sono spuntate dal suo curriculum almeno due accuse recentemente rivelatesi infondate), vuole trascinarlo in catene davanti a un giudice, dopo avergli negato il pagamento di una cauzione stratosferica, per lo stupro ai danni di una cameriera del Sofitel di Manhattan, non si sa quanto piacente, che afferma decisa di essere stata costretta alla pratica preferita da Bill Clinton nel suo intrattenersi con la consenziente Monica. Già questo dovrebbe far drizzare le antenne, e non altro, al magistratone così persuaso che la donzella la conti giusta, se fosse in grado di rappresentarsi l’intrinseca difficoltà di ottenere tale servizio da un soggetto recalcitrante. E riconosciamo pure a un sessantaduenne infoiato la prestanza necessaria per piegare la vittima, giacché DSK non ha le sembianze di un vecchietto macilento (oggi la terza età sopravviene molto più tardi, considerando anche certi figuri con pregressi problemi di prostata nondimeno avvezzi a orge ripetute con signore prezzolate fornite da viscidi agenti in odore di frociaggine: il massimo della libidine per togaccioni guardoni), ma il pericoloso criminale, che meriterebbe di avere le fattezze patibolari di Johnny 23, il galeotto interpretato da Danny Trejo nel film Con Air, giustamente paragonato a uno scaracchio da John Malkovich, non si sarebbe accontentato di costringere la terrorizzata serventa rifacitrice di letti all’abominio della fellatio, bensì avrebbe volentieri proseguito con quell’usanza che provocò la furia divina sulla città di Sodoma. E ancora ammettiamo il vigore e l’insaziabilità del mai troppo vituperato reggitore dei destini monetari del mondo, ché non vi è limite alla porconeria del maschio sciovinista (mica tutti i Francesi sono galanti…), però bisogna essere cretini sesquipedali obnubilati dalle esigenze del proprio uccello per inseguire con l’asta brandita in un corridoio d’albergo una tizia assolutamente non convinta di dover sottostare al tuo repentino desiderio.. Vi è da dubitare che Strass-Kahn potesse comportarsi come un anonimo mandrillo scemo in crisi d’astinenza, quantunque colto da delirio d’onnipotenza: mica si trovava in una scalcinata pensione da suburra, né in un motel da pornazzo virante verso l’horror, dove avrebbe potuto correre dietro alla vittima imbracciando una motosega per tacitarla. Tanto più che l’uomo covava un presentimento, non si sa quanto millantato, espresso meno di un mese fa a un giornalista amico: gli imbecilli ora scriveranno che si stava preparando l’alibi, ma, conoscendo la propria debolezza, cioè l’eccessivo (?) interesse per la gnocca (già sentita pure questa, con un tizio dalle nostre bande tacciato di patologica attrazione per le fanciulle in fiore, ergo inadatto a rivestire cariche istituzionali), egli paventava che si utilizzassero le sue avventure galanti per screditarlo agli occhi dei suoi possibili elettori nella non impossibile sfida al declinante Sarkozy, futuro neo-papà nell’alveo rispettabile del matrimonio con la Bruni. Guarda caso, non appena messo in ceppi il satiro Dominique dal puritanissimo procuratore, spunta fuori una gazzettiera transalpina, tale Tritane Banon, che starnazza con magnifico tempismo di una violenza che avrebbe subito dal mai domo Strass-Kahn nel lontano 2002, con la ciliegina della mancata denunzia, cinque anni dopo il fattaccio, causa intercessione della madre di lei, socialista al pari del reprobo: insomma, sarebbe stata più forte la solidarietà di partito dell’amore materno. Mah…

domenica 15 maggio 2011

Quando c'è lui, cara Lei...

Mi scusasse Vossia per l’apoditticità, d’altro canto in linea con il personaggio (dell’uomo non so, né in fondo rileva granché), ma Vittorio Sgarbi è del genere “o lo pigli o lo lasci”. Non si può pensare di ingabbiarlo in una trasmissione preregistrata, giusto per prevenirne marachelle o mattane o colpi di genio. E invece la sua corregionale appena nominata direttora generale della RAI, l’antropologa cattolica Lorenza Lei, con trascorsi nel mondo della moda (è stata responsabile del marketing per Valentino, prima di approdare in Viale Mazzini), compie uno sgarbo efferato verso il critico d’arte, sia pure in nome di Dio, e gli ordina di apparire sugli schermi in differita, presumibilmente con la benedizione dei suoi sponsor in linea diretta con l’Altissimo, i cardinali Bagnasco e Bertone (un’accoppiata che depone già da sola a favore dell’accortezza bizantina della signora, che riesce ad essere gradita in contemporanea al dominus della CEI e al primo ministro di papa Ratzinger, spesso neppur troppo felpatamente discordi fra loro). Pietra dello scandalo, è il caso di dirlo, la prima puntata del nuovo programma ideato dal fumantino ferrarese – si discute ancora sul titolo della trasmissione, che potrebbe non essere Il mio canto libero, causa probabile veto della vedova di Lucio Battisti -, dove avrebbe dovuto comparire un teologo non proprio nelle grazie delle gerarchie vaticane, tale Matthew Fox, a discettare nientepopodimeno che sul Principale dei summenzionati porporati. Gloria in excelsis Deo e così sia, con il rischio concreto che a sbottare per l’offesa non sia il Padreterno, impegnato in vicende più serie, bensì l’ex sindaco di Salemi. La Lei, che dicevano gradita a Berlusconi (non guasta certo che appaia dalle foto come una bella donna dal piglio deciso), e per questo intronizzata nella poltrona di recente abbandonata da Masi, ha privilegiato i suoi veri mentori rispetto al bungador cortese e ha esordito nel ruolo di castigamatti dell’emittente di stato con una prolungata leccata ai ‘poteri forti’ che cavalcano il vetusto destriero di Viale Mazzini: nessuno, infatti, si nasconde che, mentre Sgarbi viene mortificato coram populo dal bastone hautecouturien della ‘dama di ferro’ vezzeggiata dal berlusconiano Quagliarello, che la porta in palmo di mano con la sua Fondazione Magna Charta, la medesima Lei fa gli occhi languidi al Santoro in guerra con Bruno Vespa e alla zarina Bianca Berlinguer ‘dossierata’. Ora, la discontinuità con il predecessore Masi è lampante, se si considera che fu costui a chiamare il diavolo Sgarbi e a fissare le modalità del programma, che sarebbe dovuto andare in onda senza il filtro di una valutazione dall’alto: insomma, Masi si fidava e non temeva alzate d’ingegno del conduttore. Un cavallo sciolto, dunque, ma non tale da impensierire il cavallo RAI: un uomo di cultura non dedito ai bestemmioni da reality e alle violenze sanguinose di certi telefilm acquistati a scatola chiusa; un uomo di cultura cui al massimo si può imputare uno sbraitone verso la capra di turno, o un’overdose di narcisismo, che peraltro non difetta ai principini dell’opinione omologata e preconfezionata e unidirezionale, improvvisamente e improvvidamente cari alla capace (e antennuta) neomarescialla ‘mazziniana’. Se il buongiorno si vede dal mattino… aspettiamoci un aumento di canone per ammortizzare la buonuscita di tre milioni che Sgarbi minaccia di chiedere in caso di sua dipartita dal programma stravolto.