domenica 24 luglio 2011

Il brutto anatroccolo che non divenne cigno

La notizia più terribile del maledetto 23 Luglio 2011 è, in fondo, la più scontata, al punto di non sembrare manco una notizia: Amy Winehouse è stata trovata morta nella propria casa, sembra per overdose (e non cambierebbe alcunché se, invece, ad ucciderla fosse stata una miscela di alcool e droga). Molti, sadicamente, se lo aspettavano; e molti, per il dannato business legato alla costruzione dei miti, che funzionano meglio da morti che da vivi, è possibile se lo augurassero anche. Sotto sotto, forse financo chi sta scrivendo, giusto per confezionare un bel coccodrillo, giacché, se non si celebra a cadavere ancora caldo, o non si depreca a tutto spiano, con cipiglio moralistico, il vuoto pneumatico indotto nelle nuove generazioni (e non solo in loro) dalla mitica ‘caduta dei valori’, che non siano quelli derivanti dal warholiano quarto d’ora di celebrità, cosa ci stiamo a fare? Be’, il quarto d’ora di celebrità di Amy è durato, a dire il vero, un po’ di più, e magari si sarebbe pure allungato negli anni a venire, se la ragazza non avesse inseguito così pervicacemente la propria distruzione, fino a raggiungere l’obiettivo. Era già tutto scritto nel testo della sua canzone più famosa, Rehab, dove la cicciottella inglese divenuta anoressica proclamava all’universo mondo di rifiutare qualsiasi tentativo di riabilitazione. Ci metteva anche una buona dose d’ironia, ma la sostanza rimane invariata: la sua musa autentica nuotava in bicchieri di vodka e si gingillava con le pasticche colorate, che le assorbivano tutto il colore dal viso di monella ostinata a entrare nel ruolo di bad girl, fino ad immedesimarvisi come non ne sarebbe mai capace una profetessa della trasgressione di plastica quale Lady Gaga. Il dramma di Amy è stato proprio non riuscire a separare l’immagine dalla realtà: stava male sul serio e non giocava alla donna dello scandalo. Il suo vomito sul palco non era un trucco di scena, né la perdita della voce – stupenda, da negra vibrante e incantatrice – era un alibi per annullare i concerti. Di lei, ci resteranno due capolavori del soul (occorre ricordare che tale parola si traduce con ‘anima’?), i dischi licenziati all’esordio nell’arco di tre anni, dal 2003 al 2006, che paiono così remoti nel mondo effimero del pop: il primo, Frank, ripudiato dalla stessa Amy (“non riesco più ad ascoltarlo”); il secondo, Back to Black, nero nel titolo e nell’interpretazione, schizzato da subito in cima alle classifiche di vendita, presagio di quella nemesi che talora colpisce chi troppo in fretta sia baciato dal successo. Baciato dalla sventura della fragilità, piuttosto, se si volge al negativo il proprio talento, aiutato da compagni di strada più intenti a godere del riflesso della tua notorietà che a salvarti da un’evidente patologia dello spirito. A posteriori, risulta facile sentenziare che nessuna salvezza sarebbe stata possibile per la giovane cheap metamorfizzata, ma solo su disco, in sophisticated lady: troppo il divario fra il sembiante e il percorso di vita, tragicamente simile – anche se concentrato in pochissimi anni - a quello delle grandi dive del jazz degli anni Quaranta, da Billie a Sarah. Il contrappunto grottesco, fornito dalla capigliatura cotonata e dal senone impiantato sul corpo da uccellino, apparteneva alla scenografia, che oggi ci restituisce solo amarezza e rabbia. Sulla rete-immondezzaio ci dicono circoli un video con Amy strafatta di crack, ma non andremo certo a cercarlo. Questa aberrazione ci conferma nell’idea, poc’anzi esposta, che i costruttori di miti, cui non importa un fico secco delle persone, fossero già preparati a portarsi avanti nel lavoro post mortem: d’altro canto, la perversione nichilista si abbevera quotidianamente alla fontana degli imbecilli, che non sanno distinguere fra la sana sofferenza per i mali dell’umanità e il tristo fardello delle paranoie personali, spacciato per sensibilità esasperata. Il circolo è più vizioso di quanto si creda: in alto stanno gli avvoltoi, in basso le carogne, ma la processione degli uni e delle altre è continua ed assomiglia a uno scambio culturale. L’unico atto di pietà legittimo nei riguardi di Amy è riascoltarne la voce, non innalzarla su un altare rovesciato. E, come abbiamo in uggia il grido ‘santo subito’, ci disgusta ugualmente, se non di più, la beatificazione dei dannati e la corona d’alloro per i perdenti, che è solo una squallida parodia del Discorso della Montagna.

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