mercoledì 18 maggio 2011

Piccola storia nobile

Bella storia, commovente il giusto: quel tanto che basta per pigliare un fazzolettino di carta e soffiarvicisi il naso, dopo un piantino liberatorio. Gli è che le toghe hanno un cuore e si preoccupano per il destino di tre creature indifese, smentendo quei cattivoni che le sospettano di tramare sempre contro la Giustizia con la maiuscola per inconfessabili mene politiche. Qui la politica non c’entra nulla, giacché stiamo a parlare di mafia, che notoriamente riguarda solo terzi e quarti livelli, costituiti da rappresentanti del popolo gaglioffi, i quali si spacciano talora per umanisti dediti alla cultura e alla ricerca storica – e, infatti, è dell’anno scorso la vicenda orribile di un capobastone sorpreso su quel ramo del lago di Como (o forse era quello opposto?) a spacciare un proprio comizio di reclutamento di picciotti per una serata di presentazione di fantomatici diari di un personaggio storico già colluso con la mafia al punto di mandare un suo scagnozzo, tale Mori, fin giù in Sicilia per fingere di menare colpi mortali agli uomini di panza dell’epoca, un po’ come sta facendo ora un suonatore di sax con gli occhiali rossoneri, strappato alla balera per vestire i panni di ministro in un governo pieno di quaquaraquà. Insomma, è mo’ da lunga fiata che i boss latitanti si lasciano beccare, ma i giudici che vigilano mica ci cascano: qua è tutta ammuina e 41 bis, che poi il bis non te lo giochi al lotto e funziona meglio il gioco dei pentiti, che magari ti consentono financo di entrare in parlamento a sfornare nuove leggi, ché intanto quelle esistenti le hai già massacrate con il martelletto a inchiodare sentenze fantasiose, quando le sentenze ci sono e non hai trascorso i mesi a ponzarci sopra senza guardare il calendario, così da far scadere i termini per la detenzione, che è un po’ come far scadere lo yogurt in frigorifero: uno spreco di latticini e di neuroni e pure di soldi (i primi li impiegasti per laurearti in Giurisprudenza e i secondi sono quelli sborsati dai genitori per mantenerti agli studi). Oddìo, ho divagato troppo e ancora non ho affrontato la lacrimevole storia del picciotto spedito agli arresti domiciliari da un giudice dal cuore capiente, che è poi la ragione di quest’articolo. Be’, se qualcuno pensasse che abbia voluto allungare il brodo per la pochezza della notizia, non andrebbe lontano dalla verità: in effetti, se ci sono mafiosi depressi, certificati come tali da medici coscienziosi (son tutte fole vi sia un commercio di fogli della mutua attestanti la patologia summenzionata: mafieggiare stanca e stressa più del semplice lavorare e Pavese era un dilettante), non si vede come non possano esservi mafiosi compresi della cura della prole, che mica si affida al primo venuto, alla tata o al nido. Lo ha esplicitato un gip palermitano, che ha mandato a casa un affiliato (a onor del vero, solo presunto) a una cosca di Partinico, il quale si trova nella condizione di dover badare a tre figli piccolissimi durante l’assenza della moglie lavoratrice. Per carità, non mettiamo in dubbio che sia così, e pensiamo immediatamente al grande senso della famiglia che hanno i mafiosi, e poi si sta parlando al massimo di un untorello (presunto!), ma qualcosa non ci sconfinfera: siamo in un paese dominato dagli assistenti sociali e, appunto, dai giudici, che non ci pensano due volte a sottrarre un bambino ai poveri diavoli onesti per il solo fatto di essere indigenti. E più non dimandare.

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