sabato 27 giugno 2009

La scommessa di Nuuk

Se la libertà fosse davvero al primo posto tra i valori considerati innegoziabili dall’umanità, il primo giorno d’estate del 2009 sarebbe di festa per tutti i popoli dell’orbe terracqueo, perché ha segnato l’ingresso degli inuit (letteralmente e semplicemente, ‘popolo’, in lingua groenlandese) nel club delle nazioni sovrane. Sovrani in quasi tutto, meno che nella Corte suprema (i gradi inferiori di giustizia sono ora nelle mani di magistrati locali, non più danesi), nella valuta, nella politica monetaria, in quella estera e della sicurezza, gli Eschimesi abitanti della più grande isola del mondo dopo l’Australia lo sono da meno di una settimana, nel quadro di un’autonomia destinata a sfociare nella piena indipendenza entro un breve volgere di anni. Quanti, dipenderà dall’esito della scommessa che i nuovi reggitori della Groenlandia hanno deciso riguardo agli effetti di un fenomeno universalmente conosciuto, ma non universalmente accettato, anzi, ancora oggetto di valutazioni scientifiche assai difformi e suscettibili di dispute a vari livelli, non ultimo quello ‘politico’, nel senso più alto (o più ‘lobbystico’, per alcuni) del termine: il cosiddetto Global Warming, o riscaldamento globale. Per la Groenlandia, più che per ogni altro paese del mondo, lo scioglimento dei ghiacci discendente da tale fenomeno sarebbe il discrimine tra un’economia assistenzialistica di corto respiro e un’esplosione di ricchezza a lungo raggio. Se per la Danimarca si tratta di liberarsi di un fardello (si calcola che il distacco di Nuuk dalla madrepatria farà risparmiare a Copenhagen, alla fine del processo, una cifra annua superiore al mezzo miliardo di dollari: a tanto ammontano i sussidi erogati agli autoctoni in difficoltà, da abbandonare gradualmente ma progressivamente), per l’isola si parla di un autentico salto nel buio – e non certo quello della notte boreale: l’autodeterminazione segna la rinunzia al sessanta per cento del PIL nazionale, lasciando ai nativi il quaranta, rappresentato dall’industria della pesca. A questo punto, gli inuit potranno contare sulla base aerea statunitense di Thule, sulla produzione conserviera, sull’allevamento degli ovini (forzatamente limitato alla zona più meridionale) e delle renne (che non sono quelle di Babbo Natale), nonché sulle risorse di un sottosuolo non appieno sfruttato: criolite, grafite, carbone, piombo. E qui sta il nocciolo della questione, giacché la sinistra radicale al governo confida proprio nel Global Warming per dare impulso all’attività estrattiva, dando l’avvio alla ricerca di quanto potrebbe costituire la salvezza del paese, vale a dire il petrolio. E con esso, il gas naturale. I geologi USA hanno già stimato in novanta miliardi la quantità di barili che potrebbe contenere la zona artica, mentre le riserve di gas ammonterebbero addirittura al ventidue per cento di quelle mondiali. Ma, purtroppo, tutto rimane per ora sulla carta, di là dalla innegabile importanza della posizione strategica dell’isola. E se ci si mettesse a trivellare sul serio, una volta ammorbidito il terreno, come concilierebbero i governanti la loro impronta ecologistica con le necessità dell’industria mineraria? Nel frattempo, forse, sarebbe meglio puntare sul turismo. Sempre che la presenza dell’uomo non dia troppo fastidio. In fondo, la critica maggiore agli indipendentisti è venuta da chi considera troppo esigua la popolazione (cinquantasettemila anime). E se invece fosse l’arma vincente?

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